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Giuseppe Garibaldi

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RL del marzo 1974 (Notiziario del Consiglio Regionale della Liguria) - In copertina la fotografia di prigionieri tedeschi scortati dai partigiani (Genova - Via XX Settembre - 25 aprile 1945)

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Tra la punta di Portovenere e il Capo Corvo si apre una delle più profonde insenature di tutto il litorale occidentale italiano, declamata nei versi di illustri poeti e nella quale è incastonata La Spezia, città sede di porto militare e mercantile, che oggi è anche punto di attracco per le navi da crociera...

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Cinque borghi marinari il cui destino è sempre stato storicamente legato alla terra e all'agricoltura piuttosto che alla pesca. Un paradiso naturale della Liguria che nel 1997 è stato inserito dall'UNESCO tra i Patrimoni Mondiali dell'Umanità...

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Antiche ricette in Lunigiana
Piatti prelibati di una cucina essenziale, ma non per questo meno saporita. Cibi dal sapore antico che tornano ad imbandire le nostre tavole dopo essere stati riscoperti a nuova vita.

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Ferrovia Aulla-Lucca
Il fascino dei treni d'epoca
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Il comprensorio della fabbrica è un prezioso esempio di civiltà industriale di fine Ottocento e rappresenta un pezzo di storia fondamentale per Santo Stefano Magra e per tutta la Provincia della Spezia. Le aree recuperate vengono oggi dedicate all'arte, allo spettacolo, alla cultura...

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Il dialetto genovese
Le trasformazioni fonetiche avvenute nella parlata di Genova sono un segno inequivocabile del dinamismo espresso dalla città durante i secoli della Repubblica. A Genova il dialetto è una lingua viva, che oggi viene insegnata anche nelle scuole...

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Infiorate del Corpus Domini
"Per tetto un cielo di stelle e
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A Brugnato, ogni anno, giovani e
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I raduni e le esposizioni di questi autoveicoli sono un modo per ricordare ed onorare le persone che, in passato, questi mezzi li hanno guidati per mestiere...

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I più celebri veicoli militari che hanno partecipato alle vicende della Seconda Guerra Mondiale sfilano per strade e piazze e mantengono vivo il ricordo di quei terribili giorni...

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GIUGNO 1882 - A Caprera si spegne Giuseppe Garibaldi, l'eroe dei due mondi

Con la morte di Giuseppe Garibaldi (che con Cavour e Vittorio Emanuele II formava la triade degli uomini che avevano costruito il regno d'Italia), si chiude il primo capitolo della storia del nostro paese.
Alto, forte, con i capelli biondi e gli occhi azzurri, sorridente sempre, Garibaldi fu il Dio liberatore per le popolazioni oppresse. Passò tra il popolo delirante d'entusiasmo, tra l'idolatria e le acclamazioni; oggi tra i fiori, domani nella mischia; tranquillo a Caprera, indomito e fremente sui campi dell'onore.
Visse gli ultimi anni a Caprera, ove morì il 2 giugno 1882, semplice, modesto, ricusando onori e offerte, pago

Disegno dell'epoca raffigurante Giuseppe Garibaldi sul letto di morte
di aver dedicato tutta la sua vita alla grandezza dell'Italia.
I servizi d'informazione dei giornali erano - dati i tempi - molto limitati e, proprio in occasione della morte di Garibaldi, fu fatto ricorso al telegrafo in modo eccezionale. Sulla prima pagina del 5 giugno, dedicata all'avvenimento, il Corriere della Sera così scrive:
"Mercoledì si chiusero le piaghe alle mani di Garibaldi. Il medico del piroscafo «Cariddi» s'inquietò. Poi gli si chiuse la gola e si dovette nutrirlo artificialmente. Giovedì, sentendosi morire, fece allontanare i figli onde non addolorarli. Venerdì, contrariamente alle prescrizioni del medico, volle fare un bagno freddo. I suffumigi lo liberarono alquanto dal catarro, ma dopo le undici agonizzò. Pronunciò pochissime parole".
Qualche giorno dopo, il 9 giugno, il giornale riporta un'altra notizia:
"Ieri i medici, eseguendo le iniezioni per arrestare la decomposizione del cadavere, trovarono sul corpo del generale numerose ferite. Le più visibili sono: quella avuta in America al combattimento navale di San Gregorio, dovuta ad una palla che gli traforò il collo; una causata pure da palla,

all'addome interessante il fegato; altre due ferite da armi da fuoco al ginocchio e al collo del piede: quest'ultima l'ebbe ad Aspromonte. Le ferite d'arma bianca non si contano".
Garibaldi voleva essere cremato e aveva dato disposizioni minutissime. Ma la notizia della progettata cremazione, diffusa anche dal Corriere della Sera, provoca una vera e propria alzata di scudi: i radicali e la sinistra sono i primi a chiedere che il generale venga sepolto con le esequie ufficiali perché il suo corpo appartiene all'Italia e ai garibaldini. L'8 giugno Garibaldi viene inumato nel giardino della sua casa di fronte al mare. Re Umberto non è presente: ha inviato a rappresentarlo il principe Tommasi. Si sta stipulando segretamente la «triplice» e l'assenza del re è fortemente criticata. A complicare le cose c'è l'arresto a Ronchi dell'irredentista Guglielmo Oberdan che viene condannato a morte dal supremo tribunale di Vienna (verrà giustiziato il 20 dicembre). Divampano le polemiche. Il giornalista Michele Torraca, che pur aveva combattuto a Mentana, si dichiara contrario all'irredentismo. Altri gli rispondono duramente.
Della «triplice» e delle sue clausole si saprà qualcosa solamente vent'anni più tardi. Le difficoltà per Umberto sono grosse perché divampano ancora le passioni risorgimentali. Ma ormai è finita un'epoca. Garibaldi riposa sullo scoglio di Caprera...
Ecco un di lui elogio nelle parole di Giosuè Carducci, pronunciate in un mirabile discorso improvvisato al teatro di Bologna: "Ma ogni giorno, il sole, quando si leva sulle Alpi fra le nebbie del mattino fumanti e cade tra i vapori del crepuscolo, disegna tra gli abeti e i larici una grande ombra, che ha rossa la veste e bionda la cappelliera errante su i venti e sereno lo sguardo siccome il cielo. Il pastore straniero guarda ammirato, e dice ai suoi figliuoli: «E' l'Eroe d'Italia che veglia sulle Alpi della sua Patria»".

Ritratto di Giuseppe Garibaldi ad opera del letterato combattente Anton Giulio Barrili

Niente, nella natura umana, era più acconcio a innamorare le genti. Vedete l'uomo: statura forse mediocre (pari a quella di tanti fascinatori dell'umanità), che sembra conciliare l'affetto nella uguaglianza, e certamente attrae i fanciulli e li invita all'abbraccio. Bionda e diffusa la barba, bionde le anella de' capelli ricadenti sul collo bianchissimo; alta la fronte, eretto il cranio come se lo avesse sollevato il ribollir continuo del sangue e più quello di un gran pensiero. Noterò di passata come egli tenesse volentieri sulla testa il cappello, che si alzava

scoprendo la fronte nelle ore serene, si calava sul sopracciglio aggrondato, nelle ore meditabonde... Fiera l'impronta del viso, leonina; ma l'occhio fosforescente nella concitazione del comando, azzurreggiava limpido nella calma, accordandosi alla gravità dell'eloquio, alla melodia dell'accento. Che parlata era la sua? Una musica mista di certa austerità romana, con mollezze americane. Scandiva le frasi con lievissime pause, che dovevano trovare un segno ritmico perfino nella sua scrittura; ma proferiva sempre intera la parola, come non fa il genovese in terra, quando gli giova spogliare di consonanti le sillabe, ma come fa sempre il genovese sul mare, quando vuol farsi udire dai suoi uomini, in mezzo al fragore dei marosi, al sibilo dei venti, al cigolio delle sartie.
Chi ha sentito Giuseppe Garibaldi, intende assai meglio che io non dico; e più ancora intende la soavità dei modi, la delicatezza dei sentimenti espressi...
Giunse, bello e terribile, nella patria risorta, col suo largo cappello di feltro, il suo poncho e la sua bella sella americana, senza cui non gli pareva di poter stare a cavallo. Ma parliamo del suo poncho, oramai leggendario, parliamone. Sembrò in lui amore di orpelli, desiderio di distinguersi e non era. Nulla fu di teatrale in quell'uomo. Il deserto gli aveva impressi i suoi caratteri indelebili; primo fra essi l'amore della libertà in ogni cosa; sotto tutte le forme.

Giuseppe Garibaldi ritratto durante la "Spedizione dei Mille". (Litografia dell'epoca di L.Cadolini)

La tunica impaccia noi, il mantello ci lega le braccia; il poncho, non tunica nè mantello, copre il petto di nobili pieghe e lo scalda in pari tempo, come il sagum dei cavalieri romani, lasciando libere le braccia al gesto del comando, al gioco delle redini, al rotear della spada...
L'anima sua non pregiò, non conobbe mai grandezze fastose.
Sobrio, frugale nei pasti, non beveva vino, pure amandolo di classico amore. Poche vivande gli andavano a grado, quelle in ispecie del marinaio genovese. E dei nostri concittadini, in campo, amava esser ospite, come Augusto de' propri, anche al colmo della potestà imperiale. Belle mense, nei rustici casolari, o sulla proda del sentiero, quando il Generale assaggiava la zuppa, qualche volta il brodetto nero del carabiniere genovese!
Quanto al pane, si e nò. Sul Monte Sacro, davanti a Roma, dopo un'ora di epiche sfide, si sedette sul verde per mangiare un boccone. Il suo pasto era un pezzo di carne rifredda, involta in un vecchio giornale. Ne offerse cortesemente ai suoi uomini: "Grazie, Generale" risposero. E lui: "Senza complimenti, via". Uno della comitiva osservò: "E anche senza pane, Generale". Garibaldi allora precisò: "Ah! sì, ricordo che voialtri avete sempre bisogno di pane; in America, un pezzo di carne infilzata nella baionetta, da arrostirsi alla prima fermata, era il viatico del legionario".
Il suo uomo osservò: "Si Generale, ma noi siamo in Italia, nel Lazio". Garibaldi allora chiese: "Che cosa vuol dire?". La risposta fu: "Che Cerere è Dea Latina". L'accenno classico lo vinse; sorrise e concluse: "Avete ragione!", la sua frase abituale...

Sintesi e adattamento da:
- "Almanacco Regionale della Liguria" (G.Fracchia - 1925)
- Editore G.B. Paravia & C.
- "CENTO ANNI dal Corriere della Sera"
- supplemento al giornale del 13 ottobre 1976
Un barcaiolo genovese racconta come si svolsero i preparativi per la partenza dei Mille

"In occasione della memorabile spedizione dei Mille dallo scoglio di Quarto, avanzò al Ponte Reale in Genova tale sig. Profumo e, rivoltosi ai presenti - tutti barcaioli - faceva caldo invito se ci fossero volenterosi per prestare patrio servizio, e recarsi a bordo di un vecchio bastimento in disarmo che serviva da magazzeno, all'epoca ormeggiato al Molo Vecchio. Si trattava di ritirare da detto bastimento colli di vestiario, destinati per la spedizione dei Mille, e portarli a bordo dei piroscafi Lombardo e Piemonte che avrebbero trasportato i Garibaldini. L'imbarco dei vestiari lo effettuammo verso le dieci di sera.
Compiuto questo, ricevemmo l'ordine di trovarci verso la mezzanotte sotto la batteria della Darsena per disormeggiare i due suddetti vapori. All'ora stabilita eravamo pronti al nostro posto, ma una sola delle imbarcazioni si trovava in grado di lasciare gli ormeggi...
Passarono altre due ore e ancora non si poteva rilasciare l'altro bastimento. In questo tramite di tempo, troppo prezioso, giunse da Quarto il generale Garibaldi. Immediatamente diede l'ordine del disormeggio del vapore, ordinando nello stesso tempo che quello pronto prendesse a rimorchio il ritardatario, onde arrivare nella acque di Quarto il più presto possibile.
Dopo vari giorni dal servizio prestato per l'imbarco dei vestiari e del disormeggio dei suddetti vapori, partì la seconda spedizione. Imbarcammo i Garibaldini a Sestri, precisamente alle spalle del Castello Raggio.
Stante la mia avanzata età non preciso date, ma c'è stata epoca che nel porto di Genova esisteva una squadra di provetti barcaioli, iscritti e dipendenti dalla locale Capitaneria di Porto. Ad ogni chiamata di naufraghi eravamo obbligati a prestare il nostro valido aiuto. Di questa mia asserzione se ne potrà facilmente trovare traccia nelle carte antiche della Capitaneria le quali possono in verità anche indicare nel sottoscritto il più vecchio barcaiolo del Porto di Genova, che in vari momenti - sia per la patria che per i salvataggi - ha sempre risposto prontamente alle chiamate
".

Sintesi e adattamento da "IL SECOLO XIX" del 5 maggio 1910 - Questa lettera venne inviata al giornale dal sig. Cabona Pietro, fu Pietro. All'epoca aveva 76 anni e per 60 aveva prestato servizio attivo nel Porto di Genova.

Uno scritto di Giovanni Pascoli ripropone le gesta dell'armata dei Mille e del loro Duce

"L'eroe teneva a spall'arm la sciabola, come per deporla. Le onde sussurravano ai suoi piedi. Scintillavano i fuochi del cielo sul suo capo. Il vento agitava il mantello delle sue galoppate americane. Dietro lui e intorno a lui era uno scalpiccio incessante. Era l'esercito suo impaziente che batteva e strisciava i piedi sulla spiaggia, come i cavalli delle Pampe non ferrati. In tutti era la coscienza della grande impresa. Non era di mira un'isola, un regno, un re; ma il mondo... A che pensavano nella lunga e mal sofferta aspettazione?
Era il cinque maggio ancor per poco. Le stelle erano già a mezzo il loro tacito scivolio. Chi non pensò che era l'anniversario della morte di Napoleone? Dice uno dei volontari, quegli che incise colla punta della spada le sue memorie garibaldine. Napoleone, a quell'ora, giaceva freddo e immobile da dodici ore sul suo letto da campo.
Gli alisei sibillavano nella trista isola delle nubi. Egli si era raccolto nella sua ultima visione. Aveva veduto sè sul suo cavallo bianco, alla testa di un esercito innumerabile e invincibile. L'ultimo, e forse il più grande imperatore latino marciava verso l'oriente, era stato vinto, tradito e preso Cesare: si svegliava Alessandro. Il sogno che aveva sognato avanti gli occhi fissi della Sfinge di granito, ora diventava realtà.
Colonne infinite d'uomini parlanti tutte le lingue d'Europa s'irradiavano attorno al piccolo e pallido Corso meditante sul suo cavallo bianco. Un immenso calpestio lo seguiva, lo precedeva, lo circondava. Cigolar di ruote, tonar di carriaggi, ballonzar d'affusti, ringhiar di cavalli, barrir d'elefanti. Egli disse: "Téte... armée...". E spirò nella sua marcia oltreumana.
Sono dodici ore. L'eroe latino è sullo scoglio avanti il cielo e il mare. Ode scalpicciare intorno a sè. E' l'armata di cui egli è alla testa, per la conquista dell'impero universale del Diritto. Di lì a poco, a bordo del vapore che ve lo deve condurre, chiede "Quanto siamo in tutti?" - "Coi marinai siam più di mille!" - "Eh! Eh! Quanta gente!".
E s'intese da tutti la sua voce tranquilla soave alta: "Avanti!".

Estratto da "IL SECOLO XIX" del 5 maggio 1910 - L'articolo del grande poeta italiano fu scritto in occasione del cinquantenario della spedizione dei Mille.

La Spezia, città amica, che conserva tanti ricordi delle imprese leggendarie di Garibaldi

Ovunque, in terra spezzina, Garibaldi è ricordato da monumenti, busti, lapidi, cimèli, perché molti furono i legami tra La Spezia e l'Eroe dei Due Mondi. Nel settembre del 1849, il Generale era in fuga - braccato come un bandito - dalla Romagna, dopo la disperata difesa della Repubblica Romana e poi la morte di Anita. Riuscì a raggiungere segretamente l'ospitale Maremma, aiutato dai generosi patrioti toscani, e venne portato in salvo da un intrepido marinaio di San Terenzo, Paolo Azzarini, il quale lo traghettò con la sua barca a vela da Cala Martina a Portovenere (vedi lapide a ricordo dell'evento). Un gozzo lo portò in seguito alla Spezia, dove fu ospite di Girolamo Federici, e di li proseguì verso Chiavari tramite una carrozza.
Altre sfortunate circostanze condussero Garibaldi alla Spezia nel 1862 e nel 1867. Nel '62, dopo lo scontro e la ferita di Aspromonte, il Generale fu tenuto prigioniero per quasi due mesi (dalla fine di agosto al 22 d'ottobre) al Varignano, e visitato da diversi chirurghi; la ferita riportata alla gamba sinistra era in via di guarigione, ma l'illustre prigioniero soffriva molto per la pallottola che gli era rimasta conficcata nel piede destro, e che i medici tentavano inutilmente di estrarre.
Liberato dal carcere del Varignano, Garibaldi fu ospite dell'Hotel de la ville de Milan, che poi lasciò per raggiungere Pisa (dove un chirurgo estrasse finalmente l'ostinato proiettile) e quindi l'amata Caprera.
Nel 1867, dopo Mentana, Garibaldi fu arrestato sul treno a Figline Valdarno e portato nuovamente al Varignano, dove fu trattenuto per tre settimane. Gli spezzini lo accolsero con una dimostrazione di affetto e d'entusiasmo, come è ricordato da una lapide

apposta sulla facciata del palazzo che, un tempo, fu l'albergo «Croce di Malta» e poi sede del Banco di Napoli: "Qui prigioniero - dopo Mentana giunse - ma libero - per volere di popolo sostò - il 5 novembre 1867 - Giuseppe Garibaldi ■ La democrazia della Spezia - che già lo accolse - ferito dopo l'Aspromonte - nel primo centenario della sua nascita - riafferma - l'entusiasmo e la fede - della vigilia".
Ora il duce dei Mille è in mezzo al verde dei giardini, dove nel giugno 1913 fu eretto, su progetto dello scultore Antonio Garella, l'imponente monumento equestre (vedi foto a destra). La statua, per la quale furono impiegati 60 quintali di bronzo, poggia sopra un basamento di pietra del Romito a forma di scoglio. Il Generale, in sella al suo focoso cavallo e con la spada sguainata, guarda la città che gli fu sempre amica, e che ha conservato tanti ricordi delle sue imprese leggendarie. Altri ricordi sono anche a Lerici, che fu un vero covo di garibaldini.

LA SPEZIA - La figura della bandiera delle Frecce Tricolori fa da sfondo al monumento a Giuseppe Garibaldi
Il territorio spezzino dette dieci volontari alla spedizione dei «Mille», e centodieci alle altre campagne garibaldine.
Numerosi, tra questi volontari, furono i sarzanesi, come fu ricordato in una mostra allestita nel Palazzo Civico di Sarzana nel 1959. In quell'evento furono rievocati in un manifesto i nomi dei volontari che presero parte alla difesa della Repubblica Romana, alla spedizione dei «Mille», alle campagne del 1859, 1860 e 1866. Nell'elenco figurava, tra gli altri, Luigi Nicola Spadaccini - detto popolarmente «Magnino» - che morì in tardissima età nel 1910. Questo ultimo garibaldino era noto per le sue battute ironiche e saporite: "Ghe vuresse er Duca de Modena..." (ci vorrebbe il Duca di Modena) era solito dire quando le cose andavano male.
A Sarzana un imponente monumento ricorda il più nobile eroe del risorgimento

Nella città di Sarzana non ci sono molti monumenti ma, in compenso, ne fu eretto uno che figura tra i più imponenti del mondo. Parliamo del monumento a Giuseppe Garibaldi, elevato nella piazza omonima ed intitolato "Il genio della stirpe". L'opera si deve a Carlo Fontana, uno dei grandi maestri della nostra scultura, autore di innumerevoli lavori che oggi nobilitano pubbliche piazze o che sono conservate in importanti musei.
La statua, ricavata da un blocco di marmo delle cave di Carrara, raffigura un giovane gigante che appoggia il possente braccio su di un grande scudo nel quale è scolpito il volto di Garibaldi, a simboleggiare il popolo italiano che guarda all'avvenire, protetto dal più nobile eroe dell'epoca risorgimentale, dal più popolare condottiero delle guerre d'indipendenza.
La base del monumento è costituita da un monolito di quattro metri di altezza per due di base, tratto dalle alte cime della cava di Gioia. L'opera fu concepita nel 1907, realizzata negli anni seguenti ed inaugurata nel maggio del 1914. Il memorabile traino da Carrara a Sarzana del colossale e pesantissimo blocco monolitico costituente la base del monumento venne effettuato con l'utilizzo di numerose coppie di buoi.
Una grande folla assistette all'arrivo del monolito a alla sua messa in opera. Per sollevare il "Genio della stirpe" e collocarlo sopra la base venne ideata una complessa impalcatura in legno alla quale erano collegate varie funi e carrucole.

Da "LA NAZIONE" - Album della Spezia  -  a cura di Giorgio Batini (Edizioni dal 1974 al 1983)
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